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abbandono rifiuti e responsabilità in capo alla proprietà
Dlgs 152/2006 e sue interpretazioni giurisprudenziali
Rifiuti: la responsabilità in capo alla proprietà
Al proprietario del fondo incolpevole non può essere imposta la bonifica del sito e, se ha provveduto, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento
L’abbandono di rifiuti da parte di terzi ignoti su un fondo e la responsabilità dei proprietari del fondo è problematica di scottante attualità.
Il quadro normativo e giurisprudenziale della fattispecie può essere così riassunto:
– Le norme di cui agli articoli da 239 a 253 di cui al Titolo V della Parte IV del d.lgs 152/2006 operano un distinguo tra il responsabile dell’inquinamento e il proprietario del sito a cui ai sensi dell’articolo 240 del medesimo decreto non può essere imposta la bonifica del sito sempre che lo stesso abbia agito incolpevolmente.
– Il principio che al proprietario incolpevole non può essere imposta la bonifica del sito viene ribadita dalla giurisprudenza, da ultimo Consiglio di Stato 27/06/2024, n.5694 (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 502, e id., Sez. V, 10 ottobre 2018, n. 5604 Cons. Stato, Ad. Plen., 13 novembre 2013, n. 25) sentenza che richiama anche la pronuncia della Corte di Giustizia Ue 4 marzo 2015 C 534-13. Detta pronuncia ha interpretato la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, nel senso che non osta a una normativa nazionale la quale, “nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione”.
– Al proprietario incolpevole può comunque essere imposto il pagamento delle spese ai sensi dell’articolo 253 che, nello stabilire che gli interventi attuati costituiscono onere reale sui siti contaminati e le spese sostenute sono assistite da privilegio speciale sulle aree medesime, specifica che la ripetizione delle spese (e del privilegio) nei confronti del proprietario incolpevole può essere attuata solo nel caso l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero a fronte di un provvedimento che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità.
Le spese dovranno essere rimborsate dal proprietario nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi.
Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, lo stesso ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito.
È evidente che il noto principio di chi inquina paga non sembra realizzarsi pienamente, laddove il responsabile, come spesso accade, non venga individuato o sia incapiente, quanto meno per quanto riguarda il pagamento delle spese.
A contrario al proprietario che sia stato negligente nell’attivarsi con le segnalazioni e le denunce imposte dalla legge, possono essere imposte non solo le misure di prevenzione, ma anche gli interventi di riparazione, messa in sicurezza definitiva, bonifica e ripristino dell’area.
La negligenza del proprietario è interpretata dalla giurisprudenza nel senso che il proprietario può essere ritenuto responsabile di condotta colposa qualora non abbia ottemperato agli obblighi di custodia e vigilanza del bene, non ponendo in essere idonee e tempestive misure di cautela, per cui come detto in questi casi il proprietario unitamente ai responsabili dell’abbandono dei rifiuti possono essere destinatari di un’ordinanza ai sensi dell’articolo 192 del d.lgs. 152/2006 (Consiglio di Stato 21 marzo 2024 n. 2746).
Al proprietario del fondo incolpevole non può essere
imposta la bonifica del sito e, se ha provveduto, ha diritto
di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento
L’abbandono di rifiuti da parte di terzi ignoti su un fondo e la responsabilità dei proprietari del fondo è problematica di scottante attualità.
Il quadro normativo e giurisprudenziale della fattispecie può essere così riassunto:
– Le norme di cui agli articoli da 239 a 253 di cui al Titolo V della Parte IV del d.lgs 152/2006 operano un distinguo tra il responsabile dell’inquinamento e il proprietario del sito a cui ai sensi dell’articolo 240 del medesimo decreto non può essere imposta la bonifica del sito sempre che lo stesso abbia agito incolpevolmente.
– Il principio che al proprietario incolpevole non può essere imposta la bonifica del sito viene ribadita dalla giurisprudenza, da ultimo Consiglio di Stato 27/06/2024, n.5694 (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 502, e id., Sez. V, 10 ottobre 2018, n. 5604 Cons. Stato, Ad. Plen., 13 novembre 2013, n. 25) sentenza che richiama anche la pronuncia della Corte di Giustizia Ue 4 marzo 2015 C 534-13. Detta pronuncia ha interpretato la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, nel senso che non osta a una normativa nazionale la quale, “nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione”.
– Al proprietario incolpevole può comunque essere imposto il pagamento delle spese ai sensi dell’articolo 253 che, nello stabilire che gli interventi attuati costituiscono onere reale sui siti contaminati e le spese sostenute sono assistite da privilegio speciale sulle aree medesime, specifica che la ripetizione delle spese (e del privilegio) nei confronti del proprietario incolpevole può essere attuata solo nel caso l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero a fronte di un provvedimento che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità.
Le spese dovranno essere rimborsate dal proprietario nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi.
Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, lo stesso ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito.
È evidente che il noto principio di chi inquina paga non sembra realizzarsi pienamente, laddove il responsabile, come spesso accade, non venga individuato o sia incapiente, quanto meno per quanto riguarda il pagamento delle spese.
A contrario al proprietario che sia stato negligente nell’attivarsi con le segnalazioni e le denunce imposte dalla legge, possono essere imposte non solo le misure di prevenzione, ma anche gli interventi di riparazione, messa in sicurezza definitiva, bonifica e ripristino dell’area.
La negligenza del proprietario è interpretata dalla giurisprudenza nel senso che il proprietario può essere ritenuto responsabile di condotta colposa qualora non abbia ottemperato agli obblighi di custodia e vigilanza del bene, non ponendo in essere idonee e tempestive misure di cautela, per cui come detto in questi casi il proprietario unitamente ai responsabili dell’abbandono dei rifiuti possono essere destinatari di un’ordinanza ai sensi dell’articolo 192 del d.lgs. 152/2006 (Consiglio di Stato 21 marzo 2024 n. 2746).
Legge 15 marzo 2024 n. 36 sull’imprenditoria giovanile nel settore agricolo
La legge 15 marzo 2024 n. 36 “disposizione per la promozione e lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile nel settore agricolo” introduce misure volte a incentivare i giovani a costituire nuove imprese agricole o a mantenere le esistenti con ricambio generazionale.
L’articolo 2 definisce «impresa giovanile agricola» o «giovane imprenditore agricolo» le imprese, in qualsiasi forma costituite, che esercitano esclusivamente attività agricola ai sensi dell’articolo 2135 del codice civile, quando ricorra una delle seguenti condizioni: a) il titolare sia un imprenditore agricolo di età superiore a diciotto e inferiore a quarantuno anni compiuti; b) nel caso di società di persone e di società cooperative, comprese le cooperative di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, almeno la metà dei soci sia costituita da imprenditori agricoli di età superiore a diciotto e inferiore a quarantuno anni compiuti; c) nel caso di società di capitali, almeno la metà del capitale sociale sia sottoscritta da imprenditori agricoli di età superiore a diciotto e inferiore a quarantuno anni compiuti e gli organi di amministrazione siano composti, per almeno la metà, dai medesimi soggetti. Il medesimo articolo richiama l’articolo 2 paragrafo 1 lettera n) del Regolamento Ue 1305/2013 e l’articolo 4 paragrafo 6 del Regolamento Ue 2021/2115, regolamenti che nell’indicare un limite di età per il giovane imprenditore (peraltro previsto in quarant’anni e non in quarantuno come dall’articolo che li richiama) stabiliscono che lo stesso abbia adeguati requisiti di formazione e competenze professionali.
Ciò che risulta del tutto evidente è il mancato rinvio e/o coordinamento della legge 36/2024 con decreto legislativo n. 29 marzo 2004, n. 99, che ha introdotto la figura Imprenditore Agricolo Professionale, stabilendo che lo IAP debba dedicare alle attività agricole di cui all’articolo 2135 c.c., direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50 per cento del proprio tempo lavoro e ricavi dalle attività almeno il 50 per cento del proprio reddito complessivo di lavoro. È evidente come il succitato decreto legislativo non abbia imposto l’esclusività dell’attività agricola allo IAP, presupposto invece richiesto per l’imprenditore agricolo giovanile dalla legge n. 36/2024.
La normativa n. 36/2024 appare, dunque, restrittiva e ciò anche con riferimento – sotto questo aspetto – alle società agricole che vogliano godere delle agevolazioni di cui legge cit., in quanto non è consentito alle stesse esercitare le attività di locazione comodato e affitto di fabbricati ad uso abitativo nonché di terreni e fabbricati ad uso strumentale alle attività agricole di cui all’articolo 2135 c.c., come invece ammesso, se pur marginalmente, dall’articolo 2 del dlgs 99/2004.
Di seguito vengono elencate le agevolazioni previste per l’impresa agricola giovanile: articolo 3, fondo da 15 milioni di euro per favorire l’insediamento dei giovani nel settore agricolo attraverso l’acquisto di terreni, beni strumentali e ampliamento aziendale; articolo 4, regime fiscale agevolato per i giovani imprenditori che optano per un’imposta sostitutiva del 12,5% sui redditi di impresa con i limiti indicati nello stesso articolo; articolo 5, riduzione del compenso per attività notarile per acquisto terreni per un massimo di 200.000 euro; articolo 6, credito di imposta dell’80% spese 2024 corsi di formazione agricola; articolo 7, agevolazioni fiscali per ampliamento superfici coltivate, con riduzione di imposte di registro, ipotecaria e catastali; articolo 8, priorità ai giovani agricoltori e società agricole dagli stessi composti nella prelazione tra più confinanti; articolo 9, incentivi regionali per ricambio generazionale; articolo 10, osservatorio per imprenditoria e lavoro giovanile per favorire l’occupazione; articolo 11, quota posteggi nei mercati per vendita diretta; articolo 12, compatibilità con statuti a statuto speciale.
Con riferimento all’acquisto di terreni, si specifica che l’articolo 7 prevede che: a partire dal 1° gennaio 2024 i giovani imprenditori di cui all’articolo 2 della presente legge e aventi la qualifica di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo professionale e iscritti alla relativa gestione previdenziale, che acquistano o permutano terreni agricoli e loro pertinenze, l’imposta di registro e le imposte ipotecaria e catastale sono versate nella misura del 60 per cento di quelle, ordinarie o ridotte, previste dalla legislazione vigente, misura che si cumula con le agevolazioni o comunque all’imposizione normalmente dovute, come da quadro di sintesi.
Si ricorda che articolo 1, comma 110, della legge 29 dicembre 2023 n. 197 stabilisce la possibilità di acquisto anche da parte di persone fisiche di età inferiore a quaranta anni che dichiarino di voler ottenere, entro il termine di ventiquattro mesi, l’iscrizione nella gestione previdenziale e assistenziale prevista per i coltivatori diretti e gli IAP consentendo, quindi, a chi inizia un’attività di poter accedere alle agevolazioni.
Infine si vuole porre l’attenzione sulla particolare previsione di cui all’articolo 8 della legge 15 marzo 2024, n. 36 in tema di esercizio del diritto di prelazione da parte del proprietario confinante (articolo 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817), che indica nel caso di più soggetti confinanti, un criterio preferenziale per i soggetti di cui all’articolo 2, comma 1 della stessa legge con priorità, tra di essi, nell’ordine, per quelli di cui alla lettera a), alla lettera b) e alla lettera c), e, a parità di condizioni, per il soggetto che è in possesso di conoscenze e competenze adeguate ai sensi della normativa europea e della normativa nazionale di attuazione (con abrogazione dell’articolo 7 del decreto legislativo 18 maggio 2001 n. 228).
Vengono, quindi, anche contemplate (in questo caso con una previsione meno restrittiva rispetto al decreto lgs n. 99/2004 rispetto al quale non vi è, si ribadisce, alcun coordinamento) tra i soggetti aventi diritto di prelazione anche le società di persone, società cooperative e le società di capitali composte da imprenditori agricoli giovanili come stabilito dall’articolo 2 lettera b) e c): il disposto appare come un’assoluta novità, considerato che il decreto legislativo n. 99/2004 ha, invece, attribuito tale diritto (articolo 2 comma 3 sia per le società proprietarie confinanti ma anche per le società affittuarie) alle sole società agricole di persone di cui almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione nel registro speciale delle imprese di cui all’articolo 2188 c.c. Appaiono, quindi, probabili vertenze giudiziali, dovendosi tenere conto del principio fino ad ora sancito dalla giurisprudenza della tassatività dei soggetti aventi diritto di prelazione e riscatto agrari.
diritto di superficie e nuove applicazioni normative
Il diritto di superficie è disciplinato dall’articolo 952 c.c. che stabilisce che: “1° Il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà. 2° Del pari può alienare la proprietà della costruzione già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo”.
Tale diritto di natura reale si pone in deroga al principio di accessione (articolo 934 c.c.) – in cui normalmente il proprietario del suolo è proprietario anche della costruzione sopra stante – e comporta una separazione tra proprietà del suolo – che rimane in capo al concedente – e della costruzione soprastante effettuata da terzi, previa concessione ad aedificandum. Il secondo comma prevede la distinta ipotesi di poter alienare una costruzione già esistente, che viene alienata come proprietà superficiaria.
Il diritto a costruire, regolato dal comma 1 dell’articolo, viene riconosciuto come diritto reale anche prima della costruzione e consente al suo titolare di poter edificare e di mantenere quanto edificato, nel senso che, ove la costruzione rovini, egli ha la possibilità di riedificarla, nei limiti del suo titolo, con specificazione che l’edificazione può concernere sia la costruzione su suolo sia la sopraelevazione su un edificio esistente. Il diritto di superficie, pertanto, non si estingue per perimento della costruzione salvo diversa pattuizione tra le parti.
La costituzione di tale diritto comporterà per il proprietario concedente una evidente compressione del suo diritto di proprietà, come anche sancito dalla Cassazione (00/6656), verso la corresponsione di un prezzo normalmente ben inferiore a quello corrispondente alla vendita del terreno; l’atto di cessione – da formalizzarsi tramite atto scritto ab substantiam e da trascriversi – dovrà quindi indicare una scadenza essendo da escludersi, pur nella astratta possibilità, un diritto di superficie a tempo indeterminato e pur nella consapevolezza che gli investimenti delle imprese presuppongono una lunga durata.
In caso di costituzione del diritto di superficie a tempo determinato l’estinzione del diritto allo scadere del termine ha i seguenti effetti:
1) Il proprietario del suolo diventa anche proprietario della costruzione (articolo 953 c.c.) salvo diversa volontà delle parti (articolo 953 c.c.).
2) I contratti di locazione che hanno per oggetto la costruzione non durano se non per l’anno (articolo 954 comma 2) in corso alla scadenza del termine.
3) L’estinzione di tutti i diritti reali imposti dal superficiario (articolo 954 comma 1).
4) L’estinzione delle ipoteche (articolo 2816 comma 1), con l’aggiunta che, se il superficiario ha diritto ad un corrispettivo per l’acquisto della costruzione da parte del proprietario del suolo, le ipoteche iscritte contro di lui si risolvono sul corrispettivo medesimo.
Il diritto di superficie può estinguersi anche: per prescrizione, per quanto riguarda il diritto di fare e riedificare la costruzione, per non uso ventennale, per rinunzia o per confusione, per cause di risoluzione espressamente previste dall’atto costitutivo, quali inadempimenti espressamente definiti ecc.
In tali casi l’articolo 2816, comma 2, c.c. prevede che se per altre cause – diverse dalla scadenza del termine – si riuniscono nella medesima persona il diritto del proprietario del suolo e quello del superficiario, le ipoteche dell’uno e dell’altro continuano a gravare separatamente sui diritti stessi con la conseguente legittimità dell’espropriazione forzata su entrambi i diritti (Cass. 12.02.2024 n. 3897). Nota (1)
Alla luce di quanto brevemente esposto senza pretesa di esaustività, si osserva che è sempre necessario disciplinare con attenzione nel preliminare e nel successivo definitivo i vari aspetti, in parte già segnalati, inclusi la proprietà delle strutture e l’obbligo di smaltimento delle strutture/costruzioni insistenti sul terreno e relative garanzie.
Da segnalare che a partire dal 1 ° gennaio 2024 la legge di bilancio 2024 (Legge n. 213 del 30 dicembre 2023) all’articolo 1, comma 92 ha imposto una nuova tassazione particolarmente penalizzante per i proprietari concedenti in quanto prevede la applicazione della lettera h) del primo comma dell’articolo 67 TUIR a tutte le cessioni di diritti reali, incluso il diritto di superficie, assoggettato quindi a tassazione come reddito diverso con conseguente tassazione sull’intero corrispettivo ricevuto.
Sullo scottante tema dell’agrivoltaico, che ha interessato la concessione dei terreni anche a mezzo di diritto di superficie, ci si limita in questa sede ad accennare al recente decreto legge 15 maggio 2024 n. 63 – disposizioni urgenti per le imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura nonché per le imprese di interesse strategico nazionale – pubblicato nella G.U.n.112 del 15 maggio 2024 che, all’articolo 5 – disposizioni finalizzate a limitare l’uso del suolo agricolo – vieta l’installazione di impianti fotovoltaici a terra nelle zone classificate come agricole da piani urbanistici (ammettendo quindi solo il cosiddetto agrivoltaico avanzato), ma consente interventi di modifica, rifacimento, potenziamento o integrale ricostruzione degli impianti già installati a condizione che non comportino incremento dell’area occupata.
Nota (1) Per completezza: i diritti reali costituiti dal proprietario-concedente e gravanti sul suolo all’estinzione del diritto di superficie si estendono alla costruzione, in virtù del principio dell’accessione, mentre ai sensi dell’articolo 2816 primo comma c.c. le ipoteche iscritte contro il proprietario del suolo successivamente alla costituzione della superficie non si estendono alla superficie.
La prelazione delle società agricole di persone
La Suprema Corte in un recente pronunciamento del 2023 (7 agosto 2023 n. 23989) riconferma quanto già dalla stessa statuito in tema di diritto di prelazione in capo alle società agricole di persone (Cass. 5 marzo 2019 n. 6302), con un orientamento che ormai si conferma costante ed aderente al dettato normativo.
Il legislatore del 2004 con il decreto legislativo n. 99 ha introdotto all’art. 2 comma 3 il riconoscimento solo alle società agricole di persone con almeno la metà dei soci in possesso della qualifica di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione al registro delle imprese, sezione speciale, di cui all’articolo 2288 c.c. e s.s. il diritto di prelazione o di riscatto previsto sia per l’affittuario (articolo 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590) sia per il proprietario confinante (articolo 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817).
Già nel 2019, con la richiamata sentenza, la Suprema Corte sanciva l’indispensabilità dell’indicazione accanto al nominativo dei soci della qualifica di coltivatore diretto nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all’art. 2188 c.c., volta a dimostrare il possesso dei requisiti in capo ai soci ai sensi dell’art. 2 comma 3 dlgs 44/99
La norma è derogativa rispetto al principio stabilito dall’art. 2193 c.c., che regola in generale l’efficacia dell’iscrizione nel registro delle imprese e che consente di provare che i terzi abbiano avuto aliunde conoscenza dei fatti per i quali è prevista l’iscrizione: invece nella norma che si commenta il legislatore ha adottato la scelta rigorosa di far desumere la prova del possesso dei requisiti di coltivatore diretto solo dall’iscrizione nel registro delle imprese nell’intento – dice la Cassazione- di coniugare il riconoscimento dello sviluppo della forma societaria in agricoltura con la tutela del terzo acquirente, senza che siano ammesse interpretazioni estensive.
Viene esclusa, pertanto, nella recente sentenza 2023 cit. che abbiano alcuna validità atti diversi quali ad esempio atto di modifica della statuto societario dal quale, pure, risultava la qualifica di coltivatore diretto “volendo il legislatore riferirsi all’iscrizione di un atto che abbia lo scopo di evidenziare tale qualità dei soci e non ad un atto avente un diverso oggetto, che venga, dunque, iscritto ed indicato con riferimento ad esso, in cui semplicemente risulti indicata quella qualità”.
Concludendo la Corte afferma che “Alla luce di tali principi, l’accertamento della qualifica di coltivatore diretto ad almeno la metà dei soci deve avvenire con rigide modalità, previste ex lege, con efficacia erga omnes, non potendosi attribuire valenza equipollente ad un atto notarile depositato presso la Camera di Commercio, per quanto regolarmente iscritto”.
Pignoramento dei Titoli Pac
Il caso, su cui è stata chiamata a decidere la Suprema Corte (sentenza del 27 settembre 2021 n. 26115), e che qui si commenta, riguarda le modalità di pignoramento dei titoli Pac ovvero i titoli dell’Agea -Agenzia per le erogazioni in agricoltura- relativi agli aiuti della Politica Agricola Comune, che rappresenta uno dei principali sostegni al reddito delle aziende agricole.
Un istituto di credito aveva assoggettato a espropriazione forzata terreni e fabbricati unitamente ai titoli Agea di proprietà del proprio debitore con successiva aggiudicazione e trasferimento sia dei titoli che degli immobili: proprio il decreto di trasferimento è stato impugnato – a mezzo di opposizione agli atti esecutivi – dagli eredi del debitore sull’assunto che il pignoramento degli uni dovesse invece essere autonomo rispetto agli altri ed il giudizio è giunto in Cassazione.
La Suprema Corte ha ritenuto il motivo, relativo allo necessaria autonomia del pignoramento dei titoli rispetto al pignoramento di terreni e fabbricati, fondato sulla base delle argomentazioni qui di seguito illustrate.
I titoli in base alla normativa comunitaria, nonché a quella nazionale di recepimento vengono assegnati indipendentemente dalla produzione effettiva del fondo, essendo invece correlati agli ettari di terreno posseduti (cosiddetto “disaccoppiamento”); devono essere iscritti nell’apposito registro gestito dall’Agea (che assegna anche le somme ricevute -cosiddetti premi- in forza del diritto all’aiuto: i premi a differenza dei titoli non soggetti a pignoramento). Ancora i titoli possono essere oggetto di trasferimento con la proprietà dei terreni o senza i terreni, pur in questi casi a determinate condizioni e previa iscrizione degli atti dispositivi nei registri Agea (possono essere anche affittati unitamente alla terra ed in questo caso non sono pignorabili).
Alla luce di questo quadro diventa evidente che i titoli Pac – la cui corretta qualificazione è stata discussa sia in dottrina che in giurisprudenza- non possono essere qualificati come pertinenze immobiliari ai sensi dell’art. 817 c.c. né accessori degli immobili pignorati e, quindi, non essere sottoposti a pignoramento immobiliare ai sensi dell’art. 2912 c.c. proprio in ragione della loro autonoma trasferibilità rispetto ai terreni.
Le circolari Agea, peraltro, specificano che -conformemente a quanto già in passato ritenuto nella giurisprudenza di merito- il pignoramento dei titoli P.A.C. debba avvenire nelle forme del pignoramento mobiliare presso il debitore e non nelle forme del pignoramento di crediti presso terzi, in ogni caso con la necessaria iscrizione del vincolo nel Registro AGEA ai fini dell’opponibilità ai terzi.
La conclusione cui giunge, quindi, la Corte è che i titoli Pac devono essere pignorati autonomamente rispetto ai terreni nelle forme del pignoramento mobiliare in ragione della possibilità di una loro trasferibilità separata, al fatto che per legge sono soggetti ad iscrizione nei pubblici registri e della opponibilità degli atti di disposizione ad essi relativi solo in caso di iscrizione nei suddetti pubblici registri, con conseguente necessaria iscrizione anche del pignoramento nel registro AGEA per l’opponibilità a terzi.
Non viene esclusa comunque, la possibilità che detti titoli possano essere espropriati con i terreni in funzione dei quali sono riconosciuti, operando una interpretazione estensiva dell’art. 556 c.p.c., previa redazione, da parte dell’ufficiale giudiziario, di due distinti atti di pignoramento, da depositare unitamente in cancelleria e, rispettivamente, da trascrivere nei registri immobiliari e da iscrivere nel citato Registro AGEA.
Quadro normativo delle società agricole
La legislazione in materia agraria è stata per lungo tempo sostanzialmente improntata sulla figura del coltivatore diretto e sulla coltivazione manuale e personale, si pensi alla normativa relativa ai contratti agrari, di cui alla legge 3 maggio 1982 n. 203, o alla ancora più datata normativa in tema di prelazione agraria, di cui alle leggi 26 maggio 1965 n. 590 e 14 agosto 1971 n. 817.
E tuttavia la nuova realtà economica ha richiesto sempre più spesso il ricorso allo strumento societario anche in materia agraria. La giurisprudenza di legittimità ha recepito questa esigenza di adeguamento, ritenendo equiparate la impresa familiare coltivatrice, di cui agli articoli 48 l.n. 203/82 e 230 bis c.c. alla società semplice (ex plurimis: Cass. 2013 n. 22732, Cass. 2006 n. 1099).
Anche il legislatore ha proceduto con numerosi interventi, pur non coordinati, volti a dare risalto alla figura societaria.
Ricordiamo che l’articolo 2135 c.c. è stato riformulato con il d.lgs n. 228 del 2001, che ne ha innovato la pregressa nozione di imprenditore agricolo allo scopo di rafforzarne la posizione soprattutto in relazione alle attività connesse, successivamente con il decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99 come modificato dal successivo decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 101 (articolo 1) è stata creata la figura dell’imprenditore agricolo professionale (IAP), ben distinta per i requisiti indicati dalla figura di coltivatore diretto.
Nello stesso tempo il già citato decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99 ha configurato all’articolo 2, commi 1 e 2, un nuovo tipo di società con denominazione obbligatoria agricola, avente ad oggetto statutario l’esercizio esclusivo di una delle attività menzionate nel riformato articolo 2135 c.c.
Dette società divengono società agricole e possono essere equiparate all’IAP (articolo 1 comma 3) con le conseguenti agevolazioni se in caso di società di persone almeno un socio possieda la qualifica di IAP, per le Sas il socio accomandatario, in caso di società di capitali o cooperative almeno un amministratore, che sia anche socio per le società cooperative, sia in possesso della medesima qualifica.
Le società agricole possono anche, ai sensi dell’articolo 2 comma 4-bis, essere equiparate al coltivatore diretto persona fisica, con le conseguenti agevolazioni se le società di persone abbiano nella compagine sociale almeno un socio coltivatore diretto, mentre le società di capitali devono avere almeno un amministratore coltivatore diretto, e le società cooperative almeno un amministratore socio coltivatore diretto, iscritti nella relativa gestione previdenziale e assistenziale. Viene, poi, introdotta una novità di grande rilievo all’articolo 2 comma 3, ovvero il riconoscimento solo alle società agricole di persone con almeno la metà dei soci in possesso della qualifica di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione al registro delle imprese, sezione speciale, di cui all’articolo 2288 c.c. e s.s. il diritto di prelazione o di riscatto previsto sia per l’affittuario (articolo 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590) sia per il proprietario confinante (articolo 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817). Anche per queste società valgono le agevolazioni per i coltivatori diretti.
L’indispensabilità del requisito per l’esercizio del diritto da parte di una società agricola di persone, ex articolo 2, comma 3 del d.lgs. n. 99 del 2004, da ravvisarsi nell’indicazione del nominativo dei soci aventi i requisiti per la qualifica di coltivatore diretto nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all’articolo 2188 c.c. e s.s. viene ribadito dalla Cassazione (5 marzo 2019, n. 6302).
Si osserva che la condizione dell’iscrizione dei soci coltivatori diretti nel registro speciale delle imprese, posta a tutela del terzo acquirente, è del tutto dicotomica rispetto alla disciplina della prelazione in capo ai soggetti coltivatori diretti siano essi affittuari o proprietari confinanti, per i quali viene richiesta la prova della diretta coltivazione e della capacità lavorativa senza che registri o iscrizioni (ad esempio SCAU) abbiano un valore diverso da quello presuntivo.
Ricordiamo che il diritto di prelazione, di cui al solo articolo 8 l.n. 590/65, spetta anche alle cooperative agricole di braccianti ai sensi dell’articolo 16 Legge 14 agosto 1971, n. 817.
Per le cooperative di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo del 18 maggio 2001, n. 228, è prevista la prelazione – sia ex art. 8 l.n. 590/65 che ex art. 7 l.n. 517/71, qualora almeno la metà degli amministratori e dei soci sia in possesso della qualifica di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese di cui agli articoli 2188 e seguenti del codice civile, (articolo 7-ter del decreto legge 24 giugno 2014, n. 91, introdotto dalla legge di conversione 11 agosto 2014, n. 116)
Non sembra, invece, sia estendibile alle società, il nuovo diritto di prelazione, previsto a favore dei proprietari confinanti IAP se iscritti nella previdenza agricola in caso di mancato insediamento di coltivatori diretti affittuari sul fondo offerto in vendita (l’articolo 2-bis al secondo comma dell’articolo 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817 introdotto dall’articolo 1 terzo comma della legge 28 luglio 2016, n. 154), posto che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza, il diritto di prelazione e riscatto agrari costituiscono ipotesi tassative, non suscettibili di interpretazione estensiva, in quanto limitativi della libertà di circolazione.
Per quanto riguarda la normativa sui contratti agrari, si osserva che la recente equiparazione “ai coltivatori diretti, ai fini della presente legge, anche (de)gli imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola” (comma aggiunto all’articolo 7 della legge 203/82 dalla legge finanziaria 27 dicembre 2017 n. 205) renderebbe sensato ritenere che anche alle società vada applicata la normativa generale e non la normativa residuale per non coltivatori diretti, di cui all’articolo 23 della l.n. 203/82.
Agevolazioni per Piccola Proprietà Contadina e decadenza dai benefici all’acquirente: quando non si applica
La legge 26 febbraio 2010, n. 25, dispone che: “Al fine di assicurare le agevolazioni per la piccola proprietà contadina, (…) gli atti di trasferimento a titolo oneroso di terreni e relative pertinenze, qualificati agricoli in base a strumenti urbanistici vigenti, posti in essere a favore di coltivatori diretti ed imprenditori agricoli professionali, iscritti nella relativa gestione previdenziale ed assistenziale, nonché le operazioni fondiarie operate attraverso l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare ISMEA, sono soggetti alle imposte di registro ed ipotecarie nella misura fissa ed all’imposta catastale nella misura dell’1%. (…) I predetti soggetti decadono dalle agevolazioni se, prima che siano trascorsi cinque anni dalla stipula degli atti, alienano volontariamente i terreni ovvero cessano di coltivarli o di condurli direttamente”.
Si ricorda che, con la soppressione del termine di scadenza, le agevolazioni per la piccola proprietà contadina sono divenute definitive (articolo 1, comma 41, della legge 13 dicembre 2010, n. 220).
La legge 26 febbraio 2010, n. 25 si rifà alla pregressa normativa in tema di PPC (legge n. 604/1954) adeguandone il contenuto. Anche per tale ultima normativa vale quanto stabilito dall’articolo 11 dlgs. 228/2001, comma 1, in tema di decadenza dai benefici ovvero: “Il periodo di decadenza dai benefici previsti dalla vigente legislazione in materia di formazione e di arrotondamento di proprietà coltivatrice è ridotto da dieci a cinque anni”
Lo stesso articolo 11, ai commi 2 e 3, stabilisce eccezioni alla regola della decadenza supra stabilita, ovvero se il beneficiario prima che siano trascorsi 5 anni dalla stipula dell’atto alieni il terreno ovvero cessi di coltivarli e di condurli direttamente. In particolare il comma 3 così recita: “Non incorre nella decadenza dei benefici l’acquirente che, durante il periodo vincolativo di cui ai commi 1 e 2, ferma restando la destinazione agricola, alieni il fondo o conceda il godimento dello stesso a favore del coniuge, di parenti entro il terzo grado o di affini entro il secondo grado, che esercitano l’attività di imprenditore agricolo di cui all’articolo 2135 del codice civile, come sostituito dall’articolo 1 del presente decreto. Le disposizioni del presente comma si applicano anche in tutti i casi di alienazione conseguente all’attuazione di politiche comunitarie, nazionali e regionali volte a favorire l’insediamento di giovani in agricoltura o tendenti a promuovere il prepensionamento nel settore”.
Recentemente la Suprema Corte (Cassazione sezione Tributaria 18 maggio 2022 n. 15905), nell’interpretare la suindicata norma, ha stabilito che l’esclusione dalla decadenza dei benefici opera anche nelle ipotesi in cui l’affitto o la vendita vengano effettuate a favore della società -sia essa di persone che di capitale – il cui oggetto sociale sia riconducibile all’articolo 2135 c.c. e che abbia una compagine societaria composta esclusivamente dai soci legati da un rapporto coniugale di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo con l’originario beneficiario della prestazione.
La Cassazione fonda tale principio di salvezza delle agevolazioni, basandosi sulla normativa di cui al dlgs 99/2004 e successive modifiche ed integrazioni, con particolare riferimento alle previsioni relative alle società agricole qualificate come Imprenditori Agricoli Professionali (articolo 1 comma 3 dlgs 99/2004 e articolo 2 comma 4 ma si veda anche il comma 4 – bis che estende le agevolazioni anche alle società agricole di persone con almeno un socio coltivatore diretto, alle società agricole di capitali con almeno un amministratore coltivatore diretto, nonché alle società cooperative con almeno un amministratore socio coltivatore diretto).
Proprio in ragione della sostanziale equiparazione, operata dal legislatore del 2004, delle società agricole IAP con la persona fisica che ha assunto qualifica di IAP, la Corte ha ritenuto di applicare le eccezioni di decadenza, di cui all’articolo 11 comma 3 dlgs 228 n. 2001, anche alle società agricole IAP composte dai familiari con la linea di parentela specificata nel medesimo articolo, per essere mantenuta in questi casi la presunzione di continuità della coltivazione del fondo.
Secondo la Suprema Corte, anche se la normativa tributaria e di agevolazione è soggetta ad un’interpretazione restrittiva, quanto statuito in ordine all’applicabilità delle agevolazioni anche alle società agricole composte dai familiari non costituisce una deroga a tale principio, comportando un mero adeguamento al dettato normativo.
Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 15/11/2022 n. 33645 Occupazione senza titolo di beni immobili Il danno da perdita subita se non provato può essere liquidato in via equitativa dal Giudice
La Suprema Corte Cass. S.U. 15/11/2022 n. 33645 è intervenuta a dirimere un annoso contrasto in tema di risarcimento del danno da occupazione senza titolo di beni immobili, su cui si erano espresse, con due divergenti indirizzi giurisprudenziali, la Seconda e Terza Sezione della Corte di Cassazione.
Vi è da precisare che tali distinti indirizzi ed il caso su cui si sono espresse le Sezioni Unite non riguardano la fattispecie in cui il titolo è cessato, per la quale si applica pacificamente l’articolo 1591 c.c., bensì l’ipotesi in cui l’occupazione abusiva è caratterizzata dall’originario difetto del titolo, per la quale si applica il regime di responsabilità extracontrattuale di cui all’articolo 2043 c.c.
Il nucleo delle distinte interpretazioni inerisce l’inquadramento del danno da occupazione senza titolo “in re ipsa” (teoria normativa o causale) svolta dai Giudici.
Da un lato il danno viene fatto discendere direttamente dalla natura fruttifera del bene occupato abusivamente e, dunque, dall’impedimento a ricavarne un’utilità per la preclusione all’uso anche solo potenziale della cosa, senza che sia necessaria alcuna prova ulteriore e sempre fatta salva la prova contraria.
Dall’altro l’alleggerimento dell’onere probatorio con ammissione della prova per presunzioni non può includere l’esonero dell’allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia deve essere provata l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto; ciò in quanto (teoria causale) l’evento danno non può essere confuso con il danno conseguente all’impossessamento senza titolo, che deve essere provato.
Le Sezioni Unite, dopo avere analizzato le sentenze che hanno preceduto il pronunciamento, arrivano ad una tesi mediana, stabilendo il principio secondo cui nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo il “fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita” “è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”.
Tale danno da perdita subita costituito dal godimento perso è presunto e qualora “non può essere provato nel suo preciso ammontare può essere liquidato dal Giudice con valutazione equitativa se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato”.
Distinta è invece l’ipotesi in cui la domanda di risarcimento del danno riguardi il mancato guadagno (lucro cessante) nel qual caso il fatto costitutivo “è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato”.
In tale differenziazione la Corte specifica che, una volta che si quantifichi equitativamente il godimento perduto con il canone locativo di mercato, posto che il corrispettivo di una locazione ai correnti valori rientra nelle perdite subite, nella domanda risarcitoria per danni da mancato guadagno “l’onere di allegazione riguarda gli specifici pregiudizi – fra i quali si possono identificare non solo le occasioni perse di vendita a un prezzo più conveniente rispetto a quello di mercato, ma anche le mancate locazioni a un canone superiore a quello di mercato”, pur con la considerazione che l’onus probandi può essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o con le presunzioni semplici.
costituzione coattiva rapporto di affitto nel caso di eredi coltivatori del proprietario
Nell’eventualità di decesso di proprietario di fondi rustici condotti direttamente da lui o dalla sua famiglia chi può succedergli nella conduzione?
L’articolo 49, comma 1, della legge 1982 n. 203, nell’ottica di preservare la continuità nell’ordinamento produttivo, stabilisce il diritto a continuare nella conduzione o nella coltivazione dei fondi per quelli tra gli eredi che, al momento dell’apertura della successione, risultino avere esercitato e continuino ad esercitare su tali fondi attività agricola, in qualità di imprenditori a titolo principale o di coltivatori diretti, e ciò anche per le porzioni ricomprese nelle quote degli altri coeredi.
L’articolo è chiaro nel definire le condizioni ed i soggetti in presenza dei quali si applichi tale diritto ovvero devono sussistere i seguenti presupposti:
– la qualifica di erede e contestualmente che lo stesso sia anche coltivatore diretto o iap;
– la coltivazione/conduzione continuata da parte di quest’ultimo dei fondi del de cuius anche al momento dell’apertura della successione;
– la sussistenza di una comunione ereditaria tra chi ha coltivato e continua a coltivare i fondi del de cuius e gli altri coeredi e avente ad oggetto i fondi sui quali si intende costituire il rapporto di affittanza ex articolo 49 della legge n. 203/1982.
Proprio in ragione della finalità della norma, che è quella di garantire la continuità dell’attività dell’azienda agricola, deve rilevarsi che l’ipotesi dalla stessa regolata riguarda il consolidamento di una situazione di fatto relativo a quello tra gli eredi che già si occupava della coltivazione diretta dei fondi devoluti in eredità, prima della morte del de cuius; ciò avviene tramite la costituzione appunto di un rapporto di affitto ex lege (affitto coattivo) della durata di quindici anni a partire dall’apertura della successione nei confronti degli altri coeredi: non rientra in tale ipotesi, invece, il caso in cui vi sia la pregressa sussistenza di altro titolo di affittanza.
Così ultimamente anche la Corte di Appello di Perugia, Sezione Specializzata Agraria, 19/08/2020, richiamando un indirizzo consolidato di Cassazione ha ribadito la differenza tra l’affitto coattivo regolato dall’articolo 49, comma 1, l.n. 203/1982 ed il caso di un affitto volontariamente stipulato con il proprietario finché questi fu in vita ed in essere al momento dell’apertura della successione.
Un conto è l’affitto coattivo che si instaura in favore di quello degli eredi che già coltivi il fondo in presenza delle condizioni indicate, altro conto è che sussista un distinto titolo contrattuale in essere al momento dell’apertura della successione, ipotesi quest’ultima cui non si applica dall’articolo 49 comma 1, in quanto l’erede coltivatore risulta già tutelato a fronte di autonomo contratto stipulato a suo tempo con il de cuius, ai sensi del disposto del successivo articolo 49 comma 3. Tale comma stabilisce che il contratto non si scioglie per la morte del concedente, per cui l’erede stesso, in qualità di concessionario “ex contractu”, continua ad usufruire del godimento del fondo rustico (cfr. Cass. 30.9.2016 n. 19412; Cass. 20 agosto 2015 n. 17006; Cass. 2001/4975), con subentro in tal caso degli eredi del de cuius nell’autonomo titolo negoziale quali concedenti.
Nell’ipotesi di affitto coattivo vale rilevare che il mancato accordo sul canone in via consensuale non costituisce alcun ostacolo alla costituzione ex lege di un rapporto di affitto tra i coeredi, avendo specificato la Cassazione con una recente sentenza (n. 25759 del 14/10/2019) che l’omessa determinazione del canone in via consensuale “si sopperisce mediante i meccanismi generali di integrazione del contratto, ossia sulla base dell’applicazione analogica dell’articolo 1474 c.c., comma 2, facendo riferimento al prezzo di mercato”.
divieto di contratti associativi agrari
La Cassazione, con sentenza 8 maggio 2014 n. 9978, si è espressa su di un caso riguardante la concessione di un podere ad una famiglia coltivatrice, la quale si impegnava a coltivarlo ed a ripartirne spese ed utili con il concedente, con divisione dei frutti e delle spese ancorché in percentuale diversa con il concedente, ed ha interpretato, sul solco di un precedente indirizzo (Cass. 2007 n. 8834, Cass. 2000 n. 683, Cass. 25404/2009) un siffatto accordo tra le parti come contratto partecipativo/associativo vietato ai sensi dell’articolo 45 comma 2 l.n. 203/82 e, conseguentemente, nullo. L’articolo 45 comma 2 l.n. 203/82 stabilisce che: “È fatto comunque divieto di stipulare contratti di mezzadria, colonia parziaria, di compartecipazione agraria, esclusi quelli stagionali e quelli di soccida”.
La sentenza succitata, interpretando la norma, ha ribadito il principio granitico secondo cui il contratto di affitto di fondo rustico regolato dalla legge 1982 n. 203 si configura come un contratto in cui la proprietà non ha alcuna partecipazione all’impresa altrui: il concedente fornisce unicamente un fondo, per il quale riceve una controprestazione/corrispettivo con un canone di mercato in denaro.
Si noti che l’articolo 27 l.n. 203/82 titola “Riconduzione all’affitto” e stabilisce che: “Le norme regolatrici dell’affitto dei fondi rustici si applicano anche a tutti i contratti agrari, stipulati dopo l’entrata in vigore della presente legge, aventi per oggetto la concessione di fondi rustici o tra le cui prestazioni vi sia il conferimento di fondi rustici”.
In merito, tuttavia, la Suprema Corte precisa che tale riconduzione non può riguardare i soli contratti associativi, visto il divieto di cui all’articolo 45 comma 2 l.n. 203/82, ma i “soli contratti atipici omogenei, sotto il profilo causale, all’affitto, in quanto caratterizzati dallo scambio tra concessione in godimento di un fondo rustico e altre utilità, mentre resta preclusa ogni possibilità di pretendere la conversione in affitto dei contratti associativi stipulati nella vigenza della l.n. 203 citata che, stipulati in violazione dell’articolo 45, comma 2, sono nulli”.
I principi meglio specificati nella suddetta sentenza sono i seguenti:
– l’articolo 45 l.n. 203/82 ha tassativamente negato la possibilità di stipulare contratti di mezzadria, colonia parziaria e compartecipazione dopo l’entrata in vigore della legge 3 maggio 1982 n. 203, salvo conversione dei contratti in corso all’epoca dell’introduzione della legge, che quindi sono nulli;
– alla luce di tale divieto, ai contratti associativi agrari stipulati dopo l’entrata in vigore della legge non si applica la riconduzione alla normativa del contratto di affitto stabilito dall’articolo 27 l.n. 203/82.
A riprova di quanto sopra la Cassazione 13 aprile 2007 n. 8834 ha rilevato che deve ritenersi preclusa qualsiasi possibilità di rinnovazione tacita dei rapporti agrari di tipo associativo ancora in vigore al momento dell’entrata in vigore della legge sui contratti agrari (e non convertiti in affitto a richiesta di una delle parti), poi scaduti ai sensi degli articoli 25 e 34 l.n. 203/82; la preclusione di una rinnovazione tacita di tali rapporti si basa proprio sull’assunto che la stessa si risolverebbe nell’instaurazione di nuove convenzioni in contrasto con il divieto di legge di cui all’articolo 45 comma 2 l.n. 203/82 che sono nulle.
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