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Coltivazione terreni non è prova di usucapione
È noto che ai fini del possesso per usucapione la prova degli elementi costitutivi grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva.
La problematica che si pone spesso in campo agricolo riguarda la coltivazione dei fondi e se questo elemento, una volta provato, integri un requisito utile per usucapire un bene.
In primis vale osservare che naturalmente la presenza di un titolo che giustifichi la coltivazione non può consentire l’acquisto per usucapione, fatto salvo che colui che intende usucapire un bene provi l’interversione del possesso ai sensi dell’articolo 1164 c.c. oltre agli altri requisiti richiesti dall’articolo 1158 c.c.
Il principio generale da applicarsi è il seguente: chi chiede l’accertamento della proprietà per usucapione deve provare un comportamento continuo ed ininterrotto per oltre vent’anni tale da manifestare l’intenzione di esercitare il potere sulla cosa; tale potere deve essere corrispondente a quello del proprietario ed esplicitarsi come una signoria sulla cosa che permanga per tutto il tempo indispensabile per usucapire, senza interruzione, sia per quanto riguarda l’animus che il corpus. È da escludere che la mera tolleranza del proprietario possa, invece, far integrare il suddetto requisito.
Quanto alla tolleranza, la stessa è da ravvisarsi tutte le volte che il godimento della cosa, lungi dal rivelare l’intenzione del soggetto di svolgere un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, tragga origine da spirito di condiscendenza (tra le tante Cassazione, Sez. II, 14 febbraio 2017 n. 3898, Cassazione, Sez. II, 2 settembre 2015 n. 17459).
Alla luce anche di queste considerazioni recentemente la Cassazione (Cassazione 5 marzo 2020 n. 6123) ha specificato che ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione la coltivazione del fondo non è sufficiente a configurare il possesso ad usucapionem, perché non esprime in modo inequivocabile l’intento del coltivatore di possedere.
La sentenza suindicata si pone in linea con un recente indirizzo (Cassazione 17376/2019 e 18215/2013) che ha superato i precedenti difformi, con il quale viene ribadito come la coltivazione del fondo non sia di per sé manifestazione di esercizio sufficiente al diritto di proprietà.
Quello che occorre invece è che tale attività materiale corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà venga accertata tramite indizi univoci volti ad attestare che la stessa sia svolta uti dominus.
L’accertamento di tali elementi è demandato al giudice di merito e realizza un’indagine di fatto, rimessa all’apprezzamento discrezionale, insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logica e congruamente motivata. Tale accertamento deve valutare i poteri nel complesso esercitati sul bene ed anche come l’attività di chi pretende di essere possessore si correla con il proprietario.
Nel caso su cui si è espressa dalla Corte di Cassazione il comportamento del proprietario era stato valutato dal giudice di merito tale da renderlo incompatibile con la sussistenza dell’altrui possesso sul fondo e, pertanto, sono stati ritenuti insussistenti gli elementi fondanti l’usucapione.
Gestione di beni tra comproprietari
La gestione dei beni comuni costituisce spesso motivo di conflitto, con insorgenza di dinamiche di contrasto tra i comunisti. Il codice civile, articolo 1105 primo comma, specifica che tra i comproprietari tutti hanno diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune. La stessa norma stabilisce che, per gli atti di ordinaria manutenzione, valgono le deliberazioni di maggioranza calcolata secondo le quote, sempre che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati (per gli atti che superino l’ordinaria manutenzione occorre la maggioranza di due terzi delle quote ai sensi dell’articolo 1108 c.c.).
In caso di conflitto tra i comproprietari, di stallo o di impossibilità di raggiungere una maggioranza o ancora di non esecuzione della deliberazione assunta, il comma 4 dell’articolo 1105 c.c. prevede che ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria e questa provvede in camera di consiglio, nominando se del caso anche un amministratore.
Detta norma non può essere strumento utilizzabile nel caso di opposizione della maggioranza all’azione di uno dei comproprietari; quest’ultimo, infatti, può agire anche per gli altri, presumendosi il consenso di tutti all’azione di uno, salvo appunto il dissenso espresso della maggioranza dei comproprietari.
La giurisprudenza sul punto con indirizzo consolidato ha ritenuto valido un contratto di locazione/affitto sottoscritto da un comproprietario e legittima un’azione promossa da uno dei comproprietari relativa, ad esempio, alla risoluzione del contratto stesso, al rilascio dei beni, ad un’azione di sfratto, eccetera, atti che rientrano nell’ordinaria amministrazione, sulla base del principio del reciproco rapporto di rappresentanza, salva la possibilità, come detto, dei comproprietari che rappresentino una maggioranza di opporsi.
Nell’ipotesi sopra rappresentata il ricorso al giudice in sede di volontaria giurisdizione ai sensi dell’articolo 1105 comma 4 non è ammissibile, in quanto non si tratta di stallo delle decisioni, essendo esplicitato il dissenso.
Invece lo strumento diventa legittimo laddove il conflitto di interessi non può essere superato con il criterio della maggioranza economica in presenza di uguaglianza delle rispettive quote, come ha specificato anche la Cassazione (Cassazione civile sez. III, 13/01/2009, n. 480).
In altri termini in caso di conflitto ed inerzia nelle decisioni dei comproprietari lo strumento da utilizzare è il ricorso all’autorità giudiziaria tramite volontaria giurisdizione ai sensi dell’articolo 1105 comma 4 c.c., ovvero quando sussiste un dissenso che si verifica tra soci di pari quota (nella misura del 50% e 50%) e nei casi in cui non si formi una maggioranza ai fini dell’azione dei provvedimenti necessari all’amministrazione della cosa comune e, quindi, si renda necessario che il giudice adotti gli opportuni provvedimenti ai sensi della norma indicata (Cass. 18/06/2020, n. 11802).
Nei casi sopra specificati la Suprema Corte ha specificato come detta azione sia imprescindibile per la gestione della cosa comune, dovendo il partecipante rivolgersi al giudice in sede di volontaria giurisdizione con preclusione al medesimo partecipante di rivolgersi al giudice in sede di contenzioso ordinario.
Impresa agricola ed esenzione dal fallimento
È noto che l’impresa agricola non è soggetta a fallimento, ai sensi dell’articolo 1 regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, che prevede che solo le imprese commerciali possano subire il fallimento con esclusione degli enti pubblici. L’impresa agricola, ai fini della sottrazione al fallimento, deve configurarsi nell’alveo della norma di cui all’articolo 2135 codice civile, come modificato dall’articolo 11 d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, che ne ha delineato l’ambito specificando, al comma 1, che “È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse” ed al comma 2 che “Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”. Il comma 3 dello stesso articolo, invece individua le attività connesse ovvero tutte quelle attività “dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”. La Corte di Cassazione è intervenuta, interpretando le due norme e precisando che un’impresa agricola che svolga nel contempo anche un’attività commerciale non può essere sottratta al fallimento (tra le altre Cassazione 12215/2012), principio anche ribadito in un recente pronunciamento (Cassazione 21 gennaio 2021 n. 1049): incombe sull’imprenditore agricolo l’onere di dimostrare che l’attività commerciale rientra, invece, nell’alveo delle attività di cui all’articolo 2135 codice civile. In particolare, se per l’accertamento della fallibilità dell’imprenditore agricolo e per dimostrare i presupposti di cui all’articolo 1 Legge fallimentare comma 1, spetta a chi chiede la dichiarazione di fallimento provare l’esistenza anche di un’attività commerciale che si affianchi all’attività agricola, chi invochi l’esenzione del fallimento deve dimostrare che detta attività commerciale può essere ricondotta nell’ambito dell’articolo 2135 codice civile comma 3. Ciò in applicazione ai principi in tema di onere della prova stabiliti dall’articolo 2697 codice civile comma 2 e per il generale principio di vicinanza della prova. La prova necessaria ad ottenere l’esenzione dell’imprenditore agricolo dal fallimento deve essere tesa a dimostrare il collegamento funzionale della sua attività con la terra, intesa come fattore produttivo, e la proporzione tra le attività connesse di cui all’articolo 2135, comma 3, codice civile rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura, senza che le prime assumano rilievo prevalente. Nel caso di cui alla recente sentenza della Cassazione (Cass. 1049/2021) in presenza di un’attività di floricoltura, piante floricole ed ornamentali, i giudici di merito con giudizio insindacabile in sede di legittimità avevano ritenuto che la commercializzazione riguardasse prodotti non ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo e, dunque, l’impresa poteva essere soggetta a fallimento. Si ribadisce, quindi, che in presenza di un’attività connessa all’impresa agricola e di svolgimento di un ciclo biologico di coltivazione collegato con il fondo, l’esclusione dal fallimento non consegue di per sé, ma deriva dal fatto che tale commercializzazione riguardi prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo piuttosto che in un altro modo. Pertanto la Suprema Corte, nel caso di cui si è occupata, ha confermato la decisione impugnata, che aveva negato la qualità di imprenditore agricolo alla ricorrente in mancanza di prova che le attività di conservazione e commercializzazione da lei esercitate riguardassero prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del proprio fondo.
Fondi confinanti – Prelazione agraria –
Può un canale o un corso d’acqua impedire la prelazione dei proprietari confinanti al fondo posto in vendita? La fattispecie si presenta molto frequentemente in quanto gli stessi così come le strade vicinali o di campagna sono presenti nelle nostre zone e visibili anche dalle mappe catastali.
Per configurare la prelazione agraria in capo ai proprietari di fondi confinanti deve sussistere, tra i vari requisiti previsti dalla normativa di cui all’art. 8 l.n. 590/65 e art. 7 l.n. 817/71 e successive modifiche ed integrazioni, l’effettiva contiguità tra i fondi.
Ed infatti ai fini di cui alla L. n. 817 del 1971, art. 7, sono considerati terreni confinanti quelli per i quali sussiste relazione di contiguità materiale, e non solo funzionale, e, pertanto, non ha diritto di esercitare la prelazione o il riscatto il proprietario il cui fondo sia separato da quello posto in vendita anche solo da una strada vicinale (Cass. Sez. Unite, 25/03/1988, n. 2582) e pertanto deve sussistere un contatto reciproco tra gli stessi
Tra i vari ostacoli che impediscono la contiguità, configurando pertanto fondi separati, sono anche appunto i canali o corsi d’acqua pubblici o demaniali o d’interesse pubblico o serventi piu’ proprietà.
Piu’ precisamente per quanto riguarda il carattere pubblico o di interesse generale non sono considerati confinanti:
-i fondi separati da un corso d’acqua di proprietà pubblica (Cass. n. 11377 del 11/05/2010) canale di scolo o canale pubblico o demaniale (Cass. 14 febbraio 1986 n. 895 e Cass. 2018 n 3409)
-un pubblico canale facente parte di un più vasto bacino imbrifero, destinato alla realizzazione di un programma di bonifica non assimilabile ad un fosso di scolo praticabile nell’ambito di una medesima unità colturale (Cass14/02/1986, n.895)
–un canale di bonifica di proprietà demaniale (Cass. n. 1433/1987 e anche Cass. n.1311/1987) o alla cui vigilanza sia preposto un Consorzio di bonifica e quindi un canale con funzioni anche solo in parte di interesse generale, alla cui vigilanza sia preposto un Consorzio di bonifica (Cass. 15 maggio 2013, n.11757).
— un corso d’acqua con funzione pubblica indipendentemente dal fatto che esso sia incluso nell’elenco delle acque pubbliche, che non ha carattere costitutivo ma solo dichiarativo (Cass. 14 marzo 2008 n. 7052)
-canale pubblico per la funzione irrigua esercitata a servizio di una pluralità di fondi, idonea ad attribuirgli una vocazione pubblica incompatibile con quella di mera delimitazione del confine (Cassazione civile 29/09/2015, n.19251).
I corsi d’acqua anche se non pubblici o aventi funzioni pubbliche escludono la confinanza se sono di proprietà di terzi (diversi dai soggetti confinanti) o in comune a più soggetti ed in particolare:
-se i corsi d’acqua siano di proprietà aliena e non proprietà dei fondi confinanti o di uno di essi (Cass. 2012 n. 3727), mentre due fondi si considerano confinanti, anche se separati da un canale di scolo delle acque, quando in mancanza di prova contraria si presuma la comunanza dello stesso ai sensi dell’art. 897 c.c. (Cass. sez. III, 29/09/2015, n.19251)
–fossi che convogliano le acque di due proprietà (Cass. 17 dicembre 1991, n. 13558) o un fosso di scolo che si innesta in altro più ampio (Cass.18/10/2012, n.17881) o impluvi naturali per lo scolo delle acque, piovane o di irrigazione, defluenti dai terreni di tutti i proprietari, per la funzione svolta sono distaccate da essi e costituiscono un nuovo bene formatosi per unione, fruito “iure proprietatis
- il fosso di adduzione dell’acqua di proprietà comune ai proprietari dei 2 fondi (quello posto in vendita e quello del prelazionante) e ad altri proprietari di fondi viciniori, (Cass. 20/12/2005, n.28235)
–attrezzature fisse per la distribuzione dell’acqua ovvero da ostacoli materiali come canali di proprietà aliena (Cass. n. 11377 del11/05/201
Sulla base di tali valutazioni occorre, pertanto, analizzare questi ostacoli fisici.
Estensione e limiti della cosa comune – Il diritto del partecipante non può estendersi a vantaggio di entità immobiliari estranee alla comunione o al condominio
Articoli 1102 e 1108 del codice civile con relativa giurisprudenza
L’argomento dell’estensione e dei limiti della cosa comune da parte del singolo comunista ha riguardato un recente pronunciamento della Corte di Cassazione (Cassazione civile sez. II, 16/05/2019, n.13213).
È legittimo un passaggio su strada comune che venga effettuato da un comproprietario per accedere ad altro fondo a lui appartenente, non incluso tra quelli cui la collettività dei compartecipi aveva destinato la strada?
Secondo la Cassazione detto godimento è vietato, non potendosi destinare la cosa comune a vantaggio dei beni individuali, salvo vi sia il consenso dei singoli comunisti.
Il caso di specie muove da un passaggio comune costituito a favore di fondi divisi a mezzo di atto pubblico di donazione e divisione.
Più precisamente l’atto di donazione e divisione ha previsto quale “patto espresso” la costituzione di una stradina a servizio specifico delle particelle “costituenti le quote di divisione”, con un “collegamento funzionale solo con le unità immobiliari…indicate”. Tuttavia, due proprietari delle particelle a suo tempo divise avevano iniziato a godere della stradina in comunione a vari soggetti, destinando la strada quale passaggio anche a favore di particelle distinte da quelle espressamente indicate dall’atto di divisione e per fare ciò avevano abbattuto una palizzata di delimitazione.
Pertanto gli altri comproprietari promuovevano azione negatoria di servitù, azione che, precisa la Cassazione, non è solo vertente all’accertamento della pretesa servitù ma anche all’eliminazione della situazione antigiuridica posta in essere dal terzo, mediante la rimozione delle opere lesive del diritto di proprietà dal medesimo realizzate, allo scopo di ottenere la effettiva libertà del fondo, così da impedire che il potere di fatto del terzo stesso corrispondente all’esercizio di un diritto, protraendosi per il tempo prescritto dalla legge, possa comportare l’acquisto per usucapione di un diritto reale su cosa altrui (cfr. ad esempio Cass. n. 16495 del 05/08/2005).
Nella stessa sentenza si specifica che il passaggio sulla stradina utilizzata dai soggetti per giungere a fondi distinti da quelli per cui la stessa è posta al servizio veniva ottenuto mediante un varco creato in una palizzata e che l’esercizio di detto passaggio a carico della strada poteva essere suscettibile di dare luogo con il passare del tempo all’acquisto di servitù per usucapione. Questi due elementi sono stati ritenuti fondanti l’azione “negatoria servitutis”.
La Corte di Cassazione nega la sussistenza di un diritto di passaggio a favore dei fondi distinti, pur di proprietà di alcuni dei comunisti, da quelli nei confronti dei quali era stato predisposto il passaggio, mutuando detto principio dagli articoli n. 1108 e 1102 c.c.
In particolare l’articolo 1102 c.c. stabilisce l’utilizzo della cosa comune da parte di ciascun partecipante, purché non venga alterata la destinazione e il comproprietario non impedisca agli altri di farne parimente uso secondo il loro diritto, mentre l’articolo 1108 c.c. stabilisce al comma 2che è necessario il consenso di tutti i partecipanti alla comunione per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune o per le locazioni superiori a nove anni.
Ai sensi dei suindicati articoli la Cassazione ha ritenuto che non si può porre in essere alcuna forma di servitù a carico della cosa comune se non con il consenso di tutti i compartecipi, né può farsi alcun uso della strada comune più intenso ed idoneo a mutarne la destinazione.
Ciò sulla linea di quanto già espresso dalla Corte di Appello, che con sentenza in riforma del primo grado, ha in particolare osservato come vi sia stata un’apertura del varco sulla strada, tale da mutare la destinazione della cosa.
Specifica poi la Suprema Corte che il titolo contrattuale sopra individuato di donazione e divisione non si pone certo in contrasto con gli articoli n. 1102 e 1108 c.c., anzi implicitamente ne afferma l’applicabilità, senza che per ciò vi fosse un divieto pattizio.
Richiama, tra l’altro, l’indirizzo giurisprudenziale in tema di condominio ma riferibile anche alla comunione non condominiale, secondo cui il condomino il quale utilizza una parte comune modificandola per dare accesso a un fabbricato contiguo estraneo al condominio anche se di esclusiva proprietà altera la destinazione della parte comune della cosa exarticolo 1102 c.c.comportandone, per la possibilità di far usucapire al proprietario del fabbricato contiguo una servitù, lo scadimento ad una condizione deteriore rispetto a quella originaria (Cass. n. 23608/2006 o Cass. n. 24243/2008, Cass. n. 369/1995).
Sempre alla luce della giurisprudenza in tema di condominio l’uso della parte comune per creare un accesso a favore di parte esclusiva è legittimo, ai sensi dell’articolo n. 1102 c.c., se l’unità del condomino avvantaggiata è inserita nel condominio, fermi gli altri limiti, in quanto, pur realizzandosi un utilizzo più intenso del bene comune da parte di quel condomino, non si esclude il diritto degli altri di farne parimenti uso e non si altera la destinazione, restando esclusa la costituzione di una servitù per effetto del decorso del tempo (Cass. n. 24295 del 14/11/2014); inoltre per la creazione di una servitù a carico del condominio è richiesto il consenso di tutti i partecipanti alla comunione risultante da atto scritto a pena della nullità (Cass. 3867/1986).
Alla luce di quanto sopra, quindi, il diritto del partecipante alla cosa comune non può estendersi a vantaggio di entità immobiliari estranee alla comunione e al condominio.
Clausola penale nel contratto d’affitto: imposta di registro e relativa tassabilità
Due sentenze della Commissione Tributaria Provinciale di Milano
Le pronunce in tema non stabiliscono un criterio univoco
Il locatore che voglia garantirsi da eventuali inadempimenti o ritardi del conduttore, legati non solo ad eventuale morosità, ma anche ad inadempimenti diversi ritenuti da stigmatizzare, può avvalersi dello strumento della clausola penale regolata dagli articoli 1382 e seguenti del codice civile.
Infatti le norme suindicate stabiliscono la possibilità di inserire una clausola nel contratto con cui viene determinato in via forfettaria e preventiva l’ammontare del risarcimento del danno scaturente appunto dall’inadempimento ad un’obbligazione o del ritardo.
La funzione della clausola penale è, da un lato, di esonerare il locatore dal provare il danno, in quanto ne costituisce liquidazione anticipata e, dall’altro, di incentivare l’adempimento da parte del conduttore in quanto lo stesso conosce fin dall’inizio l’entità della prestazione a cui è tenuto.
D’altro canto il risarcimento è limitato a quanto pattuito contrattualmente se non è stata convenuta una risarcibilità ulteriore del danno e l’articolo 1384 c.c. stabilisce la possibilità di una riduzione, se l’obbligazione principale è stata in parte eseguita o se l’ammontare della penale risulta manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento.
Recentemente sono insorti dubbi in ordine all’applicabilità o meno dell’imposta di registro anche alla clausola penale, considerato che il DPR 131/1986 prevede, ai fini dell’imposta di registro, solo il trattamento impositivo sulla caparra confirmatoria e l’assoggettamento ad imposta di registro proporzionale al canone nella misura distinta a seconda della tipologia di immobile, mentre non prevede espressamente il regime applicabile alla clausola penale.
Sull’applicabilità o meno di un’autonoma imposizione ai fini dell’imposta di registro alla clausola penale inserita in un contratto di locazione la giurisprudenza tributaria non si è espressa in senso univoco. Trattasi infatti di interpretare la stessa clausola penale verificandone l’autonomia rispetto al contratto in cui è inserita o, diversamente, la natura accessoria. E ciò alla luce dell’articolo 21 DPR 131/1986 (Atti che contengono più disposizioni) che stabilisce al comma 1 “Se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto”, mentre al comma 2 “Se le disposizioni contenute nell’atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo alla imposizione più onerosa”.
Due recenti sentenze della Commissione Tributaria Provinciale di Milano si sono espresse in senso totalmente opposto, ovvero n. 618/2019 del 13/02/2019 e la n. 894/2019 del 24/02/2019.
Con la prima sentenza la Commissione Tributaria ha ritenuto che la clausola penale sia tassabile nella misura fissa di 200 euro, imposta da considerarsi ulteriore e autonoma rispetto a quella da versarsi o versata per la registrazione del contratto.
La sentenza motiva l’applicabilità dell’imposta sulla base dell’assunto della volontarietà della stessa clausola. Ed infatti il patto con cui le parti decidano di inserire la suddetta pattuizione, al fine di rafforzare il vincolo contrattuale principale con funzione sia di coercizione all’adempimento sia di predeterminazione della misura del risarcimento dell’inadempimento, è discrezionale e potrebbe anche non essere inserito all’interno del contratto. Tale volontarietà comporta che la clausola sia accessoria al contratto, ma anche autonoma, con propria causa ed effetti ulteriori rispetto allo stesso e, come tale, da tassarsi autonomamente, ai sensi dell’articolo 21, comma 1, DPR 131/1986.
Diversa, spiega la Commissione, è l’ipotesi in cui la previsione è di origine non negoziale ma legale, nel qual caso non sarebbe applicabile l’imposta.
Stabilita la dovutezza dell’imposta, viene altresì specificato che, poiché la clausola subordina l’esecuzione della prestazione accessoria al verificarsi di un evento futuro ed incerto successivo alla registrazione ai sensi dell’articolo 1353 c.c., deve considerarsi per analogia alla stregua di un atto sottoposto a condizione sospensiva, con conseguente tassazione in misura fissa di 200 euro, ai sensi dell’articolo 27, DPR 131/1986.
Di diverso e opposto avviso è la seconda sentenza sopra indicata (n. 894/2019), secondo cui la clausola penale non va tassata autonomamente e ciò ai sensi dell’articolo 21, comma 2, DPR 131/1986 che si applica alle obbligazioni che nell’atto trovino la loro fonte unitaria, ovvero che non possano sopravvivere autonomamente rispetto al negozio giuridico.
In particolare, secondo la sentenza 894/2019, la clausola penale non è una pattuizione autonoma, ma è derivante direttamente dal pagamento del canone, nel caso di specie, o aggiungo, all’inadempimento di altre obbligazioni contrattualmente previste.
Allo stesso modo la Commissione Tributaria Provinciale di Varese 17/01/2019, n. 48, ha specificato che se è vero che la clausola penale ha una propria causa, differente da quella del contratto in cui è stata prevista, e una sua autonomia, la stessa è collegata e complementare al contratto, la cui eventuale invalidità ed inefficacia travolge anche la clausola penale e, pertanto, la sua pattuizione in contratto rientra, quindi, nel secondo comma dell’articolo 21, DPR 131/1986 e non è soggetta ad autonoma tassazione.
Fondi agricoli, diritti degli eredi – Articolo 49 della legge 3 maggio 1982, n. 203 –
L’affitto coattivo si instaura a favore del coerede che ha esercitato l’attività agricola e continua ad esercitarla
L’articolo 49, comma 1°, della legge 3 maggio 1982, n. 203, stabilisce in caso di morte del proprietario di fondi rustici condotti o coltivati direttamente da lui o dai suoi familiari, la costituzione ex lege di un rapporto di affitto agrario in favore di quello, tra gli eredi, che in qualità di imprenditore o di coltivatore diretto al momento della apertura della successione risulti aver esercitato o continui ad esercitare attività agricola sui fondi stessi ivi incluse le porzioni ricomprese nelle quote degli altri coeredi.
L’articolo prevede che il rapporto di affitto che così si instaura tra i coeredi è disciplinato e segue le norme della stessa legge n. 203/82 con inizio dalla data di apertura della successione.
L’articolo 49, comma 2, precisa altresì che l’alienazione della propria quota dei fondi o di parte di essa effettuata da parte degli eredi di cui al comma precedente è causa di decadenza dal diritto previsto dal comma stesso.
Presupposto per l’applicazione della norma è la sussistenza di una comunione ereditaria tra chi ha coltivato e continua a coltivare i fondi del de cuius e gli altri coeredi e avente ad oggetto i fondi sui quali si intende costituire il rapporto di affittanza ex articolo 49 della legge n. 203/82.
Gli altri requisiti stabiliti dalla legge in capo a colui nei confronti del quale si instaura l’affitto coattivo sono: la sussistenza della familiarità pregressa, l’attività professionale sul fondo, il rapporto di collaborazione con il defunto, la qualifica di imprenditore agricolo o coltivatore diretto e, come detto, la continuazione della stessa attività al momento dell’apertura della successione.
La ratio della norma è quella di conservare l’integrità e la continuità dell’azienda agricola, tramite la costituzione ex lege di un rapporto regolato dalle norme sull’affitto agrario in favore di quello tra gli eredi che possieda i requisiti di cui all’articolo stesso e gli altri coeredi.
In altri termini, la tutela di quel coerede che già svolgeva l’attività agricola sul fondo a titolo di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo sulla base di un rapporto di mero fatto viene garantita tramite la prosecuzione dell’impresa agricola in favore dello stesso a mezzo dello strumento dell’affitto coattivo.
Ne deriva che l’affitto coattivo non si applica a chi abbia un autonomo titolo di godimento sul fondo, avendo già stipulato ad esempio con i propri genitori un contratto di affittanza.
Ed infatti il coerede, già affittuario sulla base di un contratto di affitto a suo tempo stipulato con il de cuius, continuerà il godimento del fondo in forza della diversa disposizione di cui all’articolo 49, comma 3, che stabilisce che i contratti agrari non si sciolgono per la morte del concedente (nello stesso senso Cass. 20 agosto 2015, n. 17006).
L’affitto coattivo non si applica, poi, in presenza di una diversa disposizione del testatore e costituisce un istituto sussidiario rispetto alla eventuale volontà del testatore che voglia attribuire specifici terreni ai singoli eredi o legatari manifestando le sue valutazioni sulla destinazione degli stessi.
Il principio è stato recentemente ribadito dalla Suprema Corte (Cass. 9 aprile 2019, n. 9804) che ha escluso la sussistenza dei presupposti per l’affitto coattivo per un caso in cui con testamento olografo l’originario proprietario dell’azienda agricola abbia attribuito i terreni ai coeredi mediante attribuzione del fondo o di porzioni concrete di esso a titolo di erede o di legato.
La Suprema Corte enuncia il principio della prevalenza della volontà testamentaria e della valutazione del testatore sulla disciplina legale, anche considerato che non si può negare al soggetto mortis causa quello stesso potere di disposizione di cui ha goduto in vita.
Osserva la Suprema Corte che sono comunque fatti salvi in caso di impresa familiare i diritti dei partecipi di cui all’articolo 230 bis c.c., commi 1 e 4, che regolano tra l’altro i diritti di partecipazione agli utili e il diritto al mantenimento del familiare che partecipa all’impresa familiare.
Ancora rileva la Corte che, nel caso di specie, i terreni sui quali era svolta l’attività agricola sono stati oggetto di divisione operata dallo stesso testatore, attraverso l’attribuzione ai singoli eredi di distinte porzioni e, pertanto, in quel caso è venuto meno il presupposto della comunione ereditaria richiesto dall’affitto coattivo.
La manutenzione straordinaria e ordinaria degli edifici e/o degli impianti presenti sul fondo
la disciplina della manutenzione straordinaria e ordinaria degli edifici e/o degli impianti presenti sul fondo oggetto di contratto di affitto che ricadono nell’ambito di operatività dell’art. 1577 c.c., richiamato dal successivo art. 1621 c.c. applicabili anche ai contratti agrari (Cassazione civile sez. III, 18/04/2013, n.9459).
Le norme richiamate stabiliscono che in pendenza del rapporto il locatore è tenuto a eseguire a sue spese le riparazioni straordinarie, mentre il conduttore è tenuto a dare avviso al locatore se la cosa necessita di riparazioni a carico di quest’ultimo, potendo eseguire direttamente le riparazioni urgenti, salvo il rimborso, purché ne dia contemporaneamente avviso al locatore. La Cassazione per un caso riguardante le locazioni abitative non ha escluso l’indennizzabilità delle opere compiute dal conduttore in caso di mancato avviso al proprietario (Cass. 16089/2003). Sarebbe bene dunque regolare contrattualmente anche questa fattispecie.
Tengasi conto che ai sensi dell’art. 1576 c.c. il locatore deve eseguire, durante la locazione, tutte le riparazioni necessarie eccettuate quelle di piccola manutenzione che sono a carico del conduttore. L’ambito delle manutenzione straordinarie può anche essere mutuato dall’art. 1005 c.c. in tema di usufrutto.
Distinta è la disciplina dei miglioramenti agrari è contenuta negli articoli da 16 a 20 della legge 3 maggio 1982 n. 203 e riguarda appunto le opere di miglioramento fondiario, le addizioni e trasformazioni degli ordinamenti produttivi e dei fabbricati rurali.
L’indennizzabilità delle opere viene condizionata al consenso del proprietario o alla richiesta all’organismo competente (ex Ispettorato provinciale).
Il consenso deve essere espresso e manifestato univocamente da parte del proprietario ma è discutibile che tale univocità sia riferibile solo alla forma scritta.
Ai sensi dell’art. 17 della medesima legge, l’affittuario che ha eseguito le opere di cui all’art. 16, comma 1, ha diritto ad una indennità corrispondente all’aumento del valore di mercato conseguito dal fondo a seguito dei miglioramenti da lui effettuati quale risultante al momento della cessazione del rapporto, con riferimento al valore attuale di mercato del fondo non trasformato.
All’affittuario compete la ritenzione del fondo fino a quando non sia stata versata dal locatore l’indennità fissata dall’organismo competente oppure determinata con sentenza definitiva dall’autorità giudiziaria (art. 20).
La rinunciabilità preventiva al diritto ai miglioramenti può avvenire se il contratto viene redatto con l’assistenza delle associazioni di categoria e in tal senso si sono espresse sia la giurisprudenza di legittimità (ad esempio: Cass. n. 8729 del 2012), sia di merito.
Ancora recentemente la giurisprudenza ha ribadito che i due concetti debbono essere tenuti distinti: il concetto di manutenzione fa riferimento ad un qualcosa che sopravviene durante lo svolgimento del rapporto contrattuale, per cui il locatore che pretenda il ristoro di un obbligo manutentivo non osservato è tenuto a dimostrare non solo la condizione di partenza dell’immobile, ma anche che esso è stato restituito in condizioni peggiori rispetto a quelle della consegna (Cass.17/06/2016, n.12518). Anche su questo punto è bene cautelarsi.
Le opere di miglioramento invece, regolate anche dal codice civile all’art. 1592 c.c., fanno riferimento al concetto di opere ad meliorandum.
Prelazione agraria: la notifica del preliminare deve rivestire forma scritta
L’articolo 8, comma 4, della legge n. 590/1965 stabilisce che, ai fini dell’esercizio della prelazione agraria con oggetto i fondi rustici, il proprietario debba notificare con lettera raccomandata al coltivatore affittuario la proposta di alienazione trasmettendo il preliminare di compravendita in cui devono essere indicati il nome dell’acquirente, il prezzo di vendita e le altre norme pattuite, inclusa la clausola sull’eventualità della prelazione, ed il coltivatore ha 30 giorni di tempo dal ricevimento della raccomandata per esercitare tale diritto.
La norma è applicata anche ai proprietari confinanti aventi diritto di prelazione coltivatori diretti o Iap in assenza di insediamenti stabili di coltivatori diretti sul fondo offerto in vendita.
La denuntiatio è una vera e propria proposta di alienazione ai sensi dell’art. 1326 c.c. che consente all’avente titolo di esercitare la prelazione e, quindi, di acquistare alle stesse condizioni il fondo medesimo.
A carico del venditore vi è pertanto l’obbligo di trasmettere la proposta di alienazione; pur non essendo previsti termini per la notifica, per ovvi motivi la trasmissione dovrà avvenire antecedentemente alla stipula del definitivo, realizzatosi il quale in capo al soggetto avente diritto di prelazione resta l’azione di riscatto.
Con numerose sentenze, anche recenti (tra le tante: Cass. 2018/28495) la Suprema Corte ha negato quindi la possibilità di effettuare la stessa in qualsiasi modo anche verbale, ribadendo un principio chiaro: la denuntiatio deve avere forma scritta, a pena di nullità.
La forma scritta è prevista ad substantiam ai sensi dell’art. 1350 c.c. poiché la denuntiatio va considerata sia come un atto negoziale sia come un atto preparatorio di una fattispecie traslativa avente ad oggetto un bene immobile, il fondo rustico appunto.
La necessità della forma scritta viene ritenuta dalla Cassazione indispensabile anche perché assolve le esigenze di certezza, trasparenza e tutela utile a tutti i soggetti interessati.
In questo modo da un lato, infatti, viene imposta la certezza del nome del terzo acquirente, evitando fini speculativi ai danni del titolare del diritto di prelazione e dall’altro viene garantito al terzo acquirente un lasso di tempo certo, appunto 30 giorni dal ricevimento della raccomandata, entro cui l’efficacia del medesimo preliminare viene sospesa.
Inoltre sempre il terzo acquirente viene sottratto al pericolo di essere assoggettato al riscatto esercitato dal coltivatore (o confinante) pretermesso; mentre il coltivatore (o confinante) è garantito, infine, in ordine alla sussistenza di condizioni della vendita più favorevoli stabilite dal proprietario promittente venditore e dal terzo promissario acquirente.
Nello stesso modo tra le tante anche Cass. 31/01/2014, n. 2187 e ancora Cassazione civile sez. III, 30/11/2005, n. 26079, Cass. 20/04/2007, n. 9519, Cass. 31/05/2010, n. 13211 che stabilisce la necessità della forma scritta anche della procura finalizzata al compimento di tale denuntiatio.
Le sentenze citate specificano altresì la logica conseguenza di questo principio ovvero il divieto di prova testimoniale della denuntiatio, dovendo necessariamente rivestire la forma scritta “ad substantiam”, in quanto diretta ad assicurare esigenze di certezza anche nei confronti del terzo acquirente per l’ipotesi di mancato tempestivo esercizio della prelazione, in osservanza dell’art. 1350 c.c. Ciò in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 2725 che stabilisce che quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni non è ammessa se non in caso di perdita incolpevole del documento.
Usucapione di beni, pubblicità del possesso
In materia di usucapione di beni immobili i requisiti per maturare il possesso ventennale utile a tali fini vengono delineati in maniera precisa dagli articoli 1158 codice civile e seguenti, come interpretati dalla giurisprudenza, e corrispondono al possesso esercitato in modo continuativo per vent’anni in assenza di violenza e clandestinità con animus del proprietario per il periodo indicato, ovvero con un comportamento che dimostri inequivocabilmente l’intenzione del soggetto di esercitare un potere sulla cosa corrispondente a quello del proprietario: il possesso esercitato con animus del proprietario deve essere, quindi, pacifico, ininterrotto ed anche pubblico.
Recentemente la giurisprudenza di merito si è soffermata su quest’ultimo requisito della pubblicità del possesso, specificando che non è sufficiente un atto meramente interno, dovendo il pieno possesso degli immobili essere esercitato corpore et animo, in maniera inequivoca e pubblica, ossia visibile a tutti o almeno ad un’apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti (Tribunale Roma 05/03/2019, n. 4953) ed esercitato in maniera ininterrotta per oltre vent’anni.
La sentenza è stata emessa sulla scorta del consolidato principio della Suprema Corte, secondo cui la signoria sulla cosa deve essere tale da rilevare anche esternamente con il compimento di atti e tale da essere indiscussa in quanto visibile a tutti, e non solo ad una ristretta categoria di persone. Tale caratteristica vale ad escludere l’elemento della clandestinità.
Così il Tribunale di Roma, con la suindicata sentenza, ha ritenuto usucapita una porzione di terreno che era stata sempre ad uso esclusivo del solo appartamento di un palazzo sito al piano terreno, che veniva utilizzato come giardino di modo che l’utilizzo esclusivo era da almeno vent’anni visibile a tutti. Detta porzione nella costruzione del palazzo era stata sottratta alla proprietà vicina e, poi, per oltre vent’anni utilizzata come giardino dal proprietario al pian terreno.
Differentemente la Corte di Cassazione in una diversa ipotesi ha cassato la sentenza di secondo grado che aveva ritenuto pubblico il possesso di un vano accessibile solo mediante una botola d’ingresso, situata in un retrobottega, visibile solo a chi avesse la possibilità di entrare nel locale (Cass. 11624/2008).
Ancora vale rilevare che secondo la Suprema Corte, poiché il requisito della continuità si basa sulla necessità che il possessore esplichi costantemente il potere di fatto corrispondente al diritto reale o di proprietà, lo stesso deve essere manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità ed alla destinazione della cosa e tali da rivelare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria di fatto sulla cosa stessa. Ciò in contrapposizione e a contrasto con l’inerzia del titolare del diritto.
Differente è, poi, il concetto di continuità del possesso da quello dell’interruzione del medesimo: ed infatti la prima si riferisce esclusivamente al comportamento del possessore. Per quanto riguarda l’interruzione del possesso, invece, la stessa può derivare dal fatto del terzo che privi il possessore del possesso (interruzione naturale) o dall’attività del titolare del diritto che compia un atto di esercizio del diritto medesimo, nella specie, il possessore di una servitù di veduta ne aveva dismesso per un certo periodo l’esercizio, eliminando con la schermatura di una terrazza ogni possibilità di inspectio e di prospectio sul fondo limitrofo (Cass. 10652/94).
Ancora non contano ai fini della dimostrazione della continuità/non continuità gli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, quanto bisogna riferirsi al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile e non occulto, così da palesare l’animo del possessore di volere assoggettare la cosa al proprio potere.
E ciò si badi bene senza che sia necessaria l’effettiva conoscenza da parte del preteso danneggiato (Cass. 17/07/1998, n. 6997).
Nel caso oggetto del pronunciamento sopra citato la decisione dei giudici è stata incentrata su alcune testimonianze che hanno confermato di avere visto occupata l’aia oggetto del contenzioso dall’attore e, prima ancora, dal nonno dello stesso senza contestazioni; mentre non sono state ritenute rilevanti altre circostanze quali ad esempio il fatto che gli sia stata revocata una concessione edilizia in difetto di titolo di proprietà.
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